Progetto realizzato in qualità di redattore capo per la rubrica “MONDO” (esteri) della testata giornalistica MPnews, in colalborazione con AIESEC.
Una passeggiata al Souq, dove la città fa mostra di sè
di Mauro Annarumma per “Lettere da Khartoum” – The Post Internazionale
Ci si sveglia presto a Khartoum, per godere delle prime ore del giorno, le più fresche. La città, infatti, è tra le più calde al mondo, con una temperatura media di 37 gradi.
Mentre si versa un bicchiere di caffè sudanese dalla jebena, la caraffa dal collo alto, ci si accorge che tutti usano la stessa ‘furbizia’. Le strade principali sono già affollate, e le persone, giovani e meno giovani, si confondono tra le auto e gli autobus che transitano senza alcuna regola apparente. La maggioranza è africana e nella folla emergono spesso figure altissime in abiti occidentali (tshirt e pantaloni) o ancora più nere nel contrasto con le tuniche bianche di fattura araba dei più tradizionalisti, jellabiya, o con i lunghi drappi detti galabieh, completi di un turbante bianco, o qualcosa di simile, e gli occhiali da sole scurissimi.
Il quartiere a sud del Nilo Blu è dove si concentrano le residenze per i turisti e gli uomini di affari in transito, i diplomatici e gli operatori di UN e ONG che portano un po’ di conforto nelle aree martoriate dalla guerra, Darfur, Monti Nuba e Sud Kordofan.
Souq al Arabi, invece, è il cuore pulsante della città.
Girare al Souq è immergersi in un grande bazar all’aperto, tra bancarelle di sandali, vestiti, sigarette e bottiglie di Coca-Cola, altre di ceste colme di spezie, frutta e verdure locali, in una galleria di verde, giallo e arancione, prodotti tipici che fanno bella mostra di sé davanti a donne che indossano leggeri chador dai colori tenui, artigiani indaffarati, rivenditori di ricariche di telefonia mobile, diligentemente in attesa del cliente dietro al loro banchetto improvvisato. Si agitano, invece, i giovani intraprendenti con le tshirts dei soccer club italiani e inglesi, con le loro spremute e i frullati freschi. Incuriosisce la “chai lady“, la donna del the, seduta accanto al bollitore a gas e ai cofanetti di spezie, che offre the e caffè per pochi centesimi a tazza.
Ci vuole un po’ a capire che Khartoum è anche e soprattutto questo, milioni di persone che vivono la loro città, e la sicurezza complessiva del centro rende difficile immaginare che in altre parti dello stesso Paese si possa combattere.
Sempre più donne e giovani davanti all’obiettivo
di Mauro Annarumma per The Post Internazionale
Nonostante il color sabbia che quasi copre ogni cosa in Sudan, la fotografia riesce a veicolare nel mondo tutti i colori e la vitalità della capitale, ma anche i lati più scuri di una terra ricca di drammatiche contraddizioni.
Ho conosciuto Mohammed Ali Sukki, trentatrè anni, fotografo. Mohammed lavora ad Omdurman, Khartum, sull’altra riva del Nilo. Dal 2009 coltiva la sua passione, la fotografia, sia come libero professionista, sia come Direttore artistico di una nota agenzia pubblicitaria della capitale, che realizza nuove campagne per la MTN, la compagnia nazionale di telecomunicazioni.
La fotografia, in particolar modo per gli stranieri, è soggetta a notevoli limitazioni e autorizzazioni, ed è meglio non fotografare donne non accompagnate. Nei matrimoni, tuttavia, che il costume sudanese vuole aperto a tutti, c’è una deroga alla norma, come alle restrizioni sul canto e sul ballo.
Così il lavoro del Sig. Mohammed è legato, soprattutto, ai matrimoni e alla pubblicità, ma aumenta il numero di donne e di giovani coppie che chiedono un ritratto, per lo più in forma privata, ma non solo. Nei suoi books, sono, infatti, sempre più le giovani donne che rendono pubblici i loro ritratti. Con orgoglio, infine, mi mostra le foto che ritraggono Albajarawia e le sue piramidi, molto più antiche – mi dice- di quelle in Egitto. E’ sua la fotografia pubblicata su The Post Internazionale in “Le Piramidi del Sudan“.
“E’ una grande nazione, il Sudan,” prosegue Mohammed, “ora abbiamo il petrolio e questa è la ragione della maggior parte dei nostri problemi”. “Ci sarebbero tante risorse per essere tutti ricchi, ma il governo vuole tenere tutto per sé. Abbiamo oro, petrolio, diamanti, il Nilo, turismo, piramidi, mandrie e campi coltivati. Abbiamo anche tantissime tribù, come i Noba i Bijjah, gli Shwaigah, gli Jaaliiah, i Bederiah..” e le parole si lasciano ascoltare, come fossero note nel vento.
Dottoresse, ambasciatrici e studentesse che non giocano a carte
di Mauro Annarumma per The Post Internazionale
(Foto di Mohammed Ali Sukki)
La caotica capitale del Sudan è una città piena di contraddizioni. Non potrebbe essere altrimenti, vista la forte presenza di etnie e culture diverse, provenienti da più parti del Sudan e del Sud Sudan. È forte il contrasto anche, soprattutto, tra le donne della capitale, nella cui moltitudine si confondono e si amalgamano tradizioni e costumi più restrittivi ad altri più permissivi.
Camminando, con molta prudenza per via del traffico caotico e dei bajaj indisciplinati (una versione pittoresca della nostra motocarrozzetta Ape), è possibile scorgere splendidi volti femminili avvolti nel “torha” di morbido cotone, che sembrano mostrarsi orgogliosi; altri, invece, si possono solo immaginare dietro i veli integrali.
In effetti, il ruolo e il costume delle donne di Khartum è una delle sorprese maggiori della città. Contrariamente a quello che si è portati a pensare del Sudan in Occidente, giovani studentesse e affermate personalità della diplomazia e del commercio cittadino riempiono i salotti cittadini.
Nel 1966 è stata fondata, ad esempio, la Ahfad University for Women. Tuttavia, può capitare che vi venga detto che le donne non possono giocare a carte in pubblico: “è roba da uomini”. La corsa all’islamizzazione della regione si scontra, in sostanza, con radicate consuetudini e aperture della società, grazie soprattutto al contributo della componente, maggioritaria, di origini africane.
Nella varietà del costume urbano è facile incorrere in errori di valutazione, i primi giorni di permanenza a Khartoum. In genere, tra stranieri e sudanesi, ci si può stringere la mano anche se una delle due persone è di sesso femminile: non c’è alcun problema se, ad esempio, la donna è originaria del Darfur o del Sud Sudan; al contrario se la coppia proviene dell’Arabia Saudita o si attiene più strettamente ai costumi arabi, è bene non offrire la mano alla donna o cercarne gli occhi.
Lei rifiuterà di darti la mano: secondo i costumi più restrittivi, infatti, è fatto divieto alle donne di essere toccate da altri uomini al di fuori dal proprio partner o familiare, così come farsi riprendere nelle foto o scambiare qualche parola con estranei di sesso opposto.
Gruppi di giovani studentesse si muovono, al contrario, nelle vicinanze dei centri universitari: frequentano i social networks, si impegnano nel sociale e partecipano alle manifestazioni studentesche, anche a rischio, per questo, di essere arrestate e interrogate dalle forze di sicurezza governative. Amano vestire, inoltre, in drappi sagomati o in vestiti simili a quelli occidentali importati dalla Cina o dall’India, nonostante una forte pressione per la loro messa al bando.
In Sudan, allo stesso tempo, infatti, il governo spinge per l’applicazione della sharia e l’arabizzazione del Paese. Non è infrequente, quindi, che donne accusate di adulterio, o che, pur denunciandone il reato, non riescono a dimostrare di essere state violentate, vengano condannate a morte per lapidazione o punite con le frustate per essersi ribellate al marito. Dal 2005, tuttavia, il Comprehensive Peace Agreementdovrebbe permettere alle donne non arabe l’uso di abiti tipicamente africani, colorati, e la non applicabilità della sharia sulle comunità non arabe. A oggi, tuttavia, la sua completa adozione è ancora uno dei temi che infiamma le periferie del Paese, e i dormitori delle università.
Sinuose ed eleganti, ecco le linee degli “henna” sudanesi
di Mauro Annarumma per The Post Internazionale
(Foto di Mohammed Ali Sukki)
Il matrimonio dei più agiati, a Khartum, richiede mesi di preparazione, e tanti, tanti soldi; è un miraggio per molti altri, la maggioranza, che nel resto del Paese sopravvive grazie agli aiuti internazionali.
Al di là della festosa ostentazione, comune a tante culture, il matrimonio sudanese è anche un’affascinanate esibizione di abiti e disegni tradizionali, ornamentali e di buon auspicio.
“Henna” sono le piccole opere d’arte, dalle linee eleganti e sinuose, che le donne si lasciano dipingere sulle mani dall’ “hannana” o dalle sorelle, prima e dopo il matrimonio. La tinta è ricavata da foglie di speciali piante sempreverde, che vengono essicate, polverizzate e stemperate con acqua, quindi fatte asciugare per alcuni giorni sotto il sole. Una volta assunta la giusta consistenza, la tinta viene stesa sulle mani e sui piedi delle giovani donne. Il colore non è permanente, dura circa due o tre settimane.
I disegni più comuni sono rose e fiori, ma la moda più recente sta lanciando anche antiche composizioni egiziane o nubiane.
Poesia, musica, danza e cultura, in un mix d’avanguardia
di Mauro Annarumma per The Post Internazionale
(Foto di Mohammed Ali Sukki)
C’è un posto a Khartum, dove il giovedì sera si fa sempre frizzante.
E’ il Maka’an Theater, al centro della città, noto circolo culturale che, in collaborazione con il British Council, promuove le opere poetiche e teatrali emergenti, le giovani band e i rappers sudanesi, nell’ambito di un progetto più ampio di sviluppo e integrazione dei giovani sudanesi.
Arte, storia e cultura abbracciano gli spettatori in una atmosfera multiculturale, sospesa tra rispetto delle tradizioni arabe e confronto con quelle del resto del mondo: eventi in lingua inglese e in lingua araba si alternano in più locali della città.
Secondo le intenzioni dei fondatori, il Makaan dovrebbe stimolare la creazione di un centro permanente di promozione della cultura sudanese e di dibattito costruttivo che, attraverso le arti e la storia, permetta di porre l’accento su aspetti della società altrimenti destinati a ricevere scarse attenzioni sia a livello locale sia in ambito internazionale.
Per questo, il centro culturale ricerca e si avvale della collaborazione di ambasciate, fondazioni, organizzazioni ed enti legati alle istituzioni e al mondo del no-profit.
Il vero protagonista, però, rimane l’estro creativo dei giovani sudanesi della capitale, i più benestanti certo, ma non solo.
Anche quest’anno, gli organizzatori hanno lanciato, infatti, una campagna di recruiting tra giovani musicisti, danzatori, scrittori, ma anche comici e rapper per serate all’insegna del divertimento e del dialogo. Un ottimo modo per cercare di unire un Paese diviso.
L’alimento principe del Sudan sarà anche un pò italiano
di Mauro Annarumma per The Post Internazionale
(Foto di Mohammed Ali Sukki)
Non distante dal viale alberato che conduce all’Ambasciata d’Italia, mentre gli occhi saltano da un minareto all’altro, sopra il tetto della città, gli altri sensi vengono catturati dalle vie caotiche del centro; anche la vista vi soccombe infine, guidata dal profumo della Kisra, il tipico pane sudanese, appena sfornato. Piatta come una omelette, la kisra è inseparabile dal porridge locale di sorgo, diffuso in tutto il Paese,l’Aseeda.
In una delle sue varianti, la durra (sorgo) o il grano sono impastati con carne secca, cipolle essicate, pepe, burro di arachidi e latte. Con un simile carico di energie, si può affrontare senza paura la calda mattina della capitale!
Il sorgo, lo si capisce subito a Khartum, è l’alimento principale di gran parte dei piatti tradizionali sudanesi. Lo si ritrova un po’ ovunque, anche nelle campagne coltivate al di fuori della città, dove lunghe file di canne di sorgo, in questo periodo ancora verdi, presto alte anche due metri, scorrono incorniciate nei finestrini impolverati della bianca Toyota in corsa.
Mi sorprendo a leggere, quasi per caso, che ci sarà un po’ di Italia anche nel pane sudanese.
Il ministro della Scienza e delle Comunicazioni sudanese, il Dott. Issa Bashara, ha reso noto, infatti, che sta per concludersi l’importazione e il collaudo della filiera industriale italiana, che permetterà di avviare una nuova catena di produzione del pane di sorgo nella capitale. Obiettivo, quello di sostituire l’importazione di prodotti finiti dall’estero.
Proprio intorno al sorgo e al granturco sudanese si è costruito un giallo internazionale.
La loro raccolta, soprattutto negli anni passati, era considerevole, tanto da essere tra i prodotti maggiormente esportati: 140 mila tonnellate negli ultimi sei anni.
Eppure, il sorgo resta ancora oggi solo un miraggio per circa 4 milioni di persone, che guerre, razzie, carestie hanno costretto a dipendere dagli aiuti alimentari, in un circolo vizioso che alimenta anche interessi più grandi.
Il Programma Alimentare Mondiale, in Sudan ha il suo più grande progetto assistenziale da anni, e ancora oggi il Paese figura tra i 16 destinari degli interventi urgenti del 2013.
Per tanti, insomma, fuori Khartum, Kisra e Aseeda appaiono, tristemente, la coppia più bella del mondo.
Nonostante il bando degli alcolici, a Khartum c’è chi ci beve su
di Mauro Annarumma per The Post Internazionale
(Foto di Mohammed Ali Sukki)
Dalle periferie della città alle tavole delle famiglie più abbienti, l’alcol, nelle sue molteplici forme, sopravvive al divieto assoluto del suo consumo.
Il più diffuso è l’araki, anche se, a onor del vero, mi dicono sia più simile a “carburante per razzi” che a un superalcolico di gusto. La merissa, invece, è una birra cruda ricavata dal sorgo, che viene consumata soprattutto in Darfur e Kordofan.
Per sfuggire alle severe pene inflitte ai tragressori, le bottiglie di succhi di frutta, diffusissime nelle strade di Khartum, nonchè le bottiglie di acqua, una volte svuotate del loro contenuto, si prestano a nascondere l’araki, di per sè incolore, che affoga i vizi e gli incubi di molti anonimi ribelli.
Capita di osservare anche qualche autista allungare la propria mano sotto il sedile, e sorseggiare, tra una sigaretta e l’altra, un pò di “carburante per razzi”. Ma a cadere spesso nel vizio sono anche donne, spesso ai margini della società e del benessere, e adolescenti di strada. Le retate, ovviamente, non mancano.
I Sudan Roots Band come i jamaicani, ma suonano “umreggaega”
di Mauro Annarumma per The Post Internazionale
Sono passati poco più di due anni dall’esordio della “Sudan Roots Band“, il gruppo musicale reggae di Khartoum, e i loro ritmi -strano a dirsi- animano le serate dei ristoranti alla moda, come il famoso Papa Costa sulla Gamhouria Street, un piacevole ritrovo anche per gli stranieri che soggiornano nella capitale.
Non suonano certo musica tradizionale, neanche quella araba come vorrebbero i più conservatori, ma la musica dei Sudan Roots riesce a coniugare le note jamaicane alla compostezza dei presenti in sala. Si ride e si batte il piede al ritmo reggae, ma l’immaginario collettivo che vorrebbe la sala colma di rasta molleggiati e nuvole di fumo si infrange, e si rimodella.
Il successo dei sette giovani sudanesi cavalca la passione per la musica che unisce i ragazzi di tutto il mondo, in particolare per un genere transnazionale portato dalla Jamaica di Bob Marley alle sale di tutto il mondo.
La musica jamaicana si insinua, tra locali e ristoranti, nel cuore della città, svincolandosi però da ogni ideologia e dalla visione del mondo che siamo abituati a riconoscervi. E’ per questo motivo che il raggae diventa fruibile anche nel mondo arabo, tradizionalmente chiuso a sperimentazioni in contrasto con il proprio costume: l’ “umreggaega“, il reggae nord africano e del mondo arabo, cerca di affermarsi come genere a sè.
Mohammed Ali, il cantantautore, vocalist e chitarrista della band, seguito a ritmo da Mohammed Bilal alla tastiera, Khater al basso, Mohammed Eltaweel, Amado Ambili e Moe Troy alle percussioni e Obada alla chitarra, canta così il sogno raggae dei giovani sudanesi.